Da 5 Bloods – 2020

Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Melvin (Isjah Whitlock jr) e Eddie (Norm Lewis), 4 vecchi commilitoni del Vietnam si ritrovano, a vari decenni dalla guerra, per andare a recuperare i resti di un loro compagno, Norman “Stormin Norm” (Chadwick Bosemam), morto sul campo e lasciato a malincuore sepolto nella giungla vietnamita, accompagnati da David (Jonathan Majors), figlio di Paul. Ma oltre al corpo, sono interessati anche a recuperare una cassa di lingotti d’oro sepolta anch’essa la vicino. Inoltre, ognuno di loro è profondamente cambiato negli anni trascorsi da quelli della fratellanza, ed oltre a questo, ci saranno altre insidie che dovranno affrontare lungo il cammino.Il corpo di Norm e la cassa d’oro, sono, come spesso accade nel cinema di Spike Lee, solo un pretesto per affrontare temi sociali e umani ben più pressanti e impegnativi rispetto ai momenti di pura azione e guerriglia che si svolgono durante il film.
I motivi di protesta sono tanti, tutti riconducibili principalmente all’assenza di effettivi diritti civili per la popolazione afroamericana, e lo fa spaziando tra momenti di storia dalla guerra civile americana ad oggi, sottolineando in maniera impeccabile come sia piuttosto strano che una minoranza che copre circa l’11% della popolazione abbia coperto il 32% della milizia americana nella guerra contro i vietcong, sempre mandati in prima linea, quasi ad agnelli sacrificali. Sono molti i momenti di tecnica che rendono piacevole il film, che mantiene i capisaldi del cinema di Lee nella sceneggiatura e nel movimento di macchina, così come i monologhi con sguardo in camera, in questo caso è Paul, quello più cambiato di tutti, roso negli anni da un segreto che ne ha lacerato l’anima, e da fratello nero che lotta per i diritti lo ha portato alla diffidenza, al razzismo, a votare Trump alle ultime elezioni, una figura che probabilmente agli occhi del regista avrebbe valenza di una critica ancora più forte verso quei fratelli che hanno tradito la propria comunità nera. Altra classica operazione del regista è l’inserimento di filmati e foto di repertorio all’interno del film, per documentare visivamente aneddoti e dialoghi, tirando in ballo icone nere della storia, da Edwin Moses a ovviamente Martin Luther King (uno dei più citati nel film), ma anche il recente Black Lives Matter.
Le scene della pellicola, alternano presente e passato, con la originale e da me apprezzata idea di mantenere gli stessi attori in entrambi gli spazi temporali, senza ricorrere ad attori copertura o a ringiovanimento digitale per le scene ambientate durante la guerra. In fondo si tratta di ricordi di gioventù rivissuti nel momento del ritorno nella giungla, e come nella realtà è difcilissimo trasporre il ricordo fisionomico di un sé stesso giovane, si resta sempre influenzati dal proprio sé (non solo fisico) attuale e alla luce di questo, la scelta acquisisce un senso compiuto. 
Come tradizione di ogni film di Spike Lee,  la parte musicale anche in questo caso è curata dal jazzista Terence Blancharde, mentre la distribuzione in questo caso è a cura di Netflix.


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