Senza di Me – di Gabriele Paoli

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Premessa #1: cercherò di non spoilerare troppo,anche se non sarà facile.

Premessa #2: ho una limitata competenza teatrale, ho visto qualche opera ma non in vasto numero, e a livello di metodi interpretativi conosco proprio le basi.

Premessa #3: la premessa #2 si può considerare non pertinente, e non va presa in considerazione.

Veniamo a noi, comunque.
Senza di Me. Il titolo, racchiude tutto, la trama dell’opera, l’anima della protagonista, la sensazione che si prova nell’assistervi.
Innanzitutto, la scenografia è azzeccata, sia per quanto riguarda l accuratezza dei mobili, nella ricostruzione di un ufficio pubblico, sia nella gestione degli spazi, con la capacità di potersi muovere in una metratura adeguata per non risultare eccessivamente soffocante ma dare la giusta misura ai movimenti delle attrici. Per certi versi, anche se a trama non c’entra assolutamente niente, la location angustia di in ufficio mi ha ricordato il film “Una Pura Formalità” di Giuseppe Tornatore e con Roman Polanski. La scena è giustamente alla portata di tutti gli spettatori, con i posti a sedere sistemati sotto la regia,a stretto contatto con le attrici, dentro la scenografia praticamente. Probabilmente, azzardo, le intenzioni del regista erano quelle di tenere il pubblico a stretto contatto d’occhio con le due protagoniste, poterne cogliere le espressioni, le gestualità, gli stati d’animo soprattutto nei momenti di maggior dramma. E poi, azzardo ancora, in un certo qual modo, essere a stretto contatto, in posizione così ravvicinata, oltre a farti colpire emotivamente, in maniera quasi fisica, dalle vicende raccontate, mi ha fatto sentire quasi parte di una giuria, in alcuni momenti pronta a condannare Karen (Jun Ichikawa) per la sua eccessiva caparbietà, quasi a livelli di ottusità, per il suo essere totalmente accecata d’amore per il suo aguzzino, ma al tempo stesso capace di comprenderla, di provare la sua pena, di condividerne il dolore per la scelta che deve affrontare, e dall’altra, in altri momenti, arrabbiarsi per la gelida Charlotte (Elda Alvigini), cinica, fredda e risoluta assistente sociale, che con il passare del tempo si scopre invece meno stronza di quel che sembra, costretta dalle circostanze in un ruolo difficile da svolgere, con eventi dolorosi nella sua vita che la costringono ad essere così distaccata, fino alla catarsi finale in cui, entrambe, sembrano riuscire a trovare la piena comprensione e solidarietà reciproca, con il toccante momento della ‘presa per mano” che le fa avvicinare.
A livello di interpretazioni, partiamo da un protagonista occulto, John Roberts, di cui non vedremo mai il viso ma ascolteremo solo la voce (Gianmarco Tognazzi). E che voce. Non ricordavo la profondità del tono, veramente una ottima scelta. John è un po il narratore, viene chiamato in causa in alcuni momenti dell’opera attraverso le registrazioni delle sedute con Karen, in cui capiamo ancora meglio il dramma della donna.
Charlotte, donna all’apparenza algida e distaccata, è interpretata da Elda Alvigini. Riesce a rendere bene la complessità di Charlotte, una donna con dei tormenti alle spalle, che è costretta in un ruolo, quello di assistente sociale della famiglia Stuart, che probabilmente non le appartiene, quantomeno per quello che deve affrontare e far affrontare a Karen, nonostante sappia in cuor suo che è la scelta migliore da poterle proporre. Sempre molto misurata nella gestualità, proprio a far capire la sua necessità di dover rimanere impassibile nonostante tutto. Dopo un inizio apertamente conflittuale, con un evidente voglia di chiudere il prima possibile questa pratica fastidiosa, riesce piano piano ad entrare in contatto emotivo con la sua assistita, riuscendo alla fine a capirsi.
Karen, l’assoluta protagonista, è una ottima Jun Ichikawa, in un ruolo nervoso,straziante. Le nevrosi che esprime, gli scatti d’ira, di disperazione, prendono allo stomaco. Non si può neanche dire che siano esasperati, storie di amore malato vengono alla luce quasi quotidianamente, purtroppo. E il suo amore assoluto per i propri figli, la costringera’ a quella che è una delle scelte più dolorose per una madre. Negazione, rabbia, disperazione, rassegnazione. Jun è stata capace di passare da una all’altra di queste emozioni in poco più di quaranta minuti. Ed è sempre stata credibile.
Veniamo al regista. È la terza opera di Gabriele Paoli, dopo Inferno Dentro e Un Giorno di Noi.
Non c’è che dire, questa è stata una bella opera teatrale, sia a livello di trama che di scelta delle attrici, messa in scena benissimo e con un pathos pressante. Tocca un tema delicato, attuale, profondo e doloroso, senza scadere nell’eccessivo buonismo e nel voler piacere a tutti i costi. Il regista è riuscito a alternare bene i momenti più drammatici ed a costruirli in maniera lineare ma senza risultare troppo ripetitivi. Mi è piaciuta molto l’idea del nastro registrato, per intervallare lo scontro tra le due donne con i ricordi di qualche mese prima, cosi da poter leggere meglio il cambiamento avvenuto in Karen, sempre più disperata e meno illusa nelle possibilità di migliorare la propria situazione. Tocco appropriato quello della colonna sonora, con due brani delicati e raffinati, inseriti nel momento giusto della rappresentazione. Anzi, se qualcuno mi desse titolo e cantante della prima canzone sarebbe super.
Non sarà facile ripetersi, ma di sicuro le prospettive per un altra bella opera come questa ci sono, nel frattempo, complimenti e congratulazioni a tutti per l’ottima riuscita.
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